sabato 23 marzo 2024

Micostorie: Mandorle per la Principessa Kate

 

Cara Gelsi,

ieri, come sai, c’è stato un tremendo attentato a Mosca. Naturalmente l’Ucraina non c’entra e naturalmente Putin userà anche questo evento contro l’Ucraina: un passetto in più verso il baratro. L’idea di una guerra che arrivi anche da noi mi sembra un’ipotesi plausibile – ero piccola quando è finita la seconda guerra mondiale, non mi era più capitato di pensare che potesse di nuovo succedere da noi. Mi ha angosciato la notizia dell’attentato, ma poi è arrivato il video di Kate e sono stata anche peggio. Io, dell’Inghilterra non mi occupo più da quando hanno votato la Brexit e con la monarchia inglese ho chiuso da quando Elisabetta non ha mosso un ciglio sullo stesso argomento (sul referendum per l’autonomia della Scozia era intervenuta, invece, anche se molto morbidamente, come si conviene a chi regna ma non governa). La notizia della brutta malattia di Kate, sebbene ampiamente prevedibile, mi ha sconvolto. Sarà perché, i personaggi pubblici che si voglia o meno, entrano a far parte del proprio immaginario. Sarà per il suo volto pulito, per quel senso di ordine e disciplina e stile che emana, per quei bambini così belli. Sarà perché le principesse fanno parte del mondo delle favole e le favole, alla mia età, devono essere solo liete. La mia mente, sempre rapida nel raffigurarsi il peggio, ha subito prodotto immagini tristissime: la regina attesa da tempo (considerando Carlo e Camilla una parentesi breve) che non diventa mai regina, i figli di William col suo stesso destino di orfani.

A queste immagini, ne sono seguite altre. In sogno. Stavo con Kate – non mi viene di chiamarla col suo cognome e neppure col suo titolo, ma solo col suo nome – e lei ha chiesto un dolce calabrese. Ed io mi sono subito offerta di prepararle le mandorle ‘nturrate. Per l’emozione o per lo scarso esercizio – sono anni che non le preparo – ho fatto una cosa assurda, le ho mescolate col pangrattato. Poi le sciacquate e mescolate di nuovo con lo zucchero: senza riuscire però a ricordare quante volte bisogna far squagliare e far rapprendere lo zucchero… comunque qualcosa ho concluso, ho rovesciato tutto sul marmo, non sembravano troppo male, Kate sorrideva –il suo volto normale, non pallido e affilato – ma è arrivata Mara e ha detto che no, erano troppo basse e le ha ricomposte in blocchi di tre strati di mandorle unite fra loro da una crema solida di cioccolato e ghirigori vari. E Kate continuava a sorridere, divertita.

Che vuol dire questo sogno, Gelsi? Vorrei poter consolare la principessa, cosa certo per me impossibile? È il mio augurio che, per lei, arrivi presto un tempo più dolce? O vorrei semplicemente consolare me stessa, anche questa cosa non facile? Tu che ne dici?

Pensaci. Domani ti chiamo. Ciao,

Raffaella

mercoledì 20 marzo 2024

Tangerinn di Emanuela Anechoum

 

«È davvero possibile isolare il grumo essenziale di chi sei da quelli che ti amano, che ti abitano? Forse l’idea di conoscere la propria verità è del tutto illusoria, non esiste una parte più vera o più autentica di noi che sia separata dagli altri, nascosta nel profondo di noi stessi, immutabile. Forse esistiamo per chi ci ama, e chi amiamo esiste per noi, nei modi in cui li vediamo, nei modi in cui ci vedono.»

Tangerinn, libro d’esordio di Emanuela Anechoum – italo-marocchina nata a Reggio Calabria poco più di trenta anni fa – è un romanzo di formazione che illumina il presente. Protagonista una generazione che, partecipe di molte identità, comprese quelle social, ha però difficoltà a riconoscersi davvero e a identificare quale sia, tra le tante che abita, la propria vera casa.

Mina, è una quasi trentenne (il libro non è autobiografico) che vive a Londra un’esistenza di plastica. Si sente “inadeguata” e, perciò, si uniforma ai dettami di Liz, instagrammatrice seriale, che le ha dato alloggio e «voleva occuparsi di me come di uno specchio rotto: ricompormi, smussarmi, lucidarmi, così che potessi riflettere la sua immagine. Anch’io desideravo questo. Voleva farsi vedere con me nei locali di Soho dove persone interessanti incontrano altre persone interessanti, e io desideravo farmi vedere al suo fianco, nei posti dove è importante esser visti. Voleva consigliarmi cosa guardare, cosa mangiare, spiegarmi cosa fosse giusto e cosa no. Era sempre disponibile a spiegarmi le cose, a illustrarmi aspetti del mondo che non conoscevo. Mi parlava di femminismo e di come questo si collegasse alla lotta di classe, e mi prestò dei libri da leggere che non mi facevano sentire stupida come a scuola. Ero felice di imparare.»

La morte del padre la riporta in Calabria, in un “paese” non nominato ma identificabile , mi pare, nella periferia reggina, dove si trova a fare i conti con il suo passato: la nonna materna, che ha conosciuto, nel Nord Italia, la seconda a mondiale, e poi tornata nella sua terra d’origine, ora accudita da una badante polacca, la madre, Berta, di fatto assente e quasi catatonica, che ben poco si è curata delle figlie, e con il padre, Omar che, nato a Derb Sultan  e vissuto per una fase a Tangeri in Marocco, è poi arrivato nell’Europa centrale e da lì si è spostato nell’estremo Sud italiano, in « una piccola città che pure spaccava il mare in due» impiantando un piccolo locale: «ll bar si chiamava Tangerinn. Era a pochi isolati da casa e si affacciava sulla spiaggia. Da che me lo ricordo, è sempre stato rumoroso, affollato, pieno di odori sempre nuovi. Era frequentato da tutti gli immigrati della zona – e solo da più grande capii che se un posto era frequentato dagli immigrati non era frequentato da nessun altro. Mi chiedo se questa cosa ti dispiacesse, ma di certo non ne facevi un dramma. Ti permetteva di ricreare l’atmosfera della casa che avevi perso, cercavi di riprodurne gli odori. La mattina servivi msemmen con formaggio e miele, a pranzo kofta, tajine con pollo, limone e olive, il venerdì facevi il cous cous. Cucinavi giorno e notte, tramandando segreti. Nel nostro giardino cresceva rigogliosa la menta, che ti permetteva di avere una teiera sempre sul fuoco.»

Del bar si occupa la sorella Aisha, che ha conservato usi e costumi marocchini, porta il velo, si è fatta carico di tutti i problemi familiari e lavorativi, e accetta con semplicità la sua vita limitata ma ricca di relazioni. Si impegna nel locale Centro di accoglienza e, intorno al bar, è riuscita a costruire una piccola comunità di persone che provano ad aiutarsi reciprocamente. Tra loro Nazim, volontario che partecipa a missioni di salvataggio in mare.

Anche nei confronti della sorella i sentimenti di Mina sono contraddittori, ma prova a darle una mano: «Intendevo portare al bar la mia esperienza – pulizia, cortesia e marketing mirato. Ma niente di quello che avevo imparato in città funzionava in paese. Metter su bandierine arcobaleno per il Pride non aveva alcun significato qui, e nessuno andava in visibilio per l’avocado, che la gente qui mangiava col cucchiaino, senza tante cerimonie. A nessuno interessavano le foto di cibo su Instagram. L’unico modo per far funzionare qualcosa era il passaparola, e qui la parola era già passata. Eravamo il bar degli immigrati, punto. Brandizzare la diversità, come qualsiasi altra cosa, era una strategia che in città portava i suoi frutti. Qui sembrava tutto un po’ ridicolo.»

La “gente del paese”, che festeggia il santo patrono con «bancarelle con le mandorle caramellate e le frittole», «sapeva a malapena aiutare se stessa, ma faceva uno sforzo sorprendente per non lasciare nessuno indietro; c’era qualcosa di profondamente cristiano nel salvare gli altri dal mare – qualcosa di evangelico in cui la gente credeva molto. Gli immigrati non venivano trattati alla pari, erano un progetto caritatevole, e questo era sufficiente per mobilitare i cristiani quel tanto che bastava, nei modi disorganizzati e goffi di una popolazione che non ha mai creduto nella legalità, nella burocrazia o negli aiuti governativi, lontana com’è sempre stata dall’occhio pigro di Roma. Per qualunque bisogno ci si affidava ai clan, e a Dio. Una volta fuori pericolo, gli immigrati venivano riversati nelle strade come acqua sporca, ignorati, marginalizzati, lasciati a morire di altre morti. Era questo il modo cristiano di salvare il prossimo.» «(…) D’altronde avevano già i loro problemi, con la spazzatura per le strade e l’abusivismo e il pizzo e i negozi che ogni tanto esplodevano. (…) Ogni tanto usciva un film o un servizio in tv. La medio borghesia ne parlava, s’indignava, diceva: non siamo cattivi, parlano sempre male di noi, per questo poi il turismo non decolla, ma c’è anche bellezza, qui. L’orgoglio della comunità sembrava risvegliarsi solo quando veniva criticata, mai per difendersi da se stessa.»

Mina cerca di ricostruire la vita del padre, di “conoscerlo” finalmente e davvero e questo percorso, contraddittorio, confuso, doloroso, la riporta a Londra, le fa visitare Tangeri, la riporta, infine, in Calabria dalla sorella con cui ha cominciato a stabilire un legame autentico.

Tangerinn è come attraversato dall’urgenza di una generazione di uscire dalla gabbia del mito dell’autorealizzazione, con annessi presunzione e solitudine, e cercare una felicità semplice, accettando i propri limiti e la propria vulnerabilità e godendo di rapporti umani sinceri e reali. La vita non come format cui adeguarsi tutti, ma come intreccio di gioia e dolore cui ciascuno può dare la sua risposta.

 

Emanuela Anechoum, Tangerinn, Edizioni e/o, 2024 pp.256, €18

 

 Pubblicato su @Zoomsud:

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